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Periscopio – Irena Sendler

Al di là degli aspetti morali, educativi, civili, uno dei più grandi meriti della Giornata della Memoria – e che, pur di fronte agli aspetti problematici di varia natura (più volte, da diverse parti richiamati, con varietà di argomentazioni), ne rende tanto importante l’esistenza – è senz’altro quello di far conoscere a un più vasto pubblico storie di straordinaria importanza, altrimenti condannate a restare nell’ombra, o a scivolare inesorabilmente nell’oblio. Il 27 gennaio tantissime persone, giovani e meno giovani, sono non solo chiamate a riflettere su ciò che è stato, ma anche ad apprendere qualcosa di nuovo, a conoscere la realtà di vicende umane fino a quel momento sconosciute, che appaiono tuttavia di essenziale importanza, nella loro grandezza e tragicità, ai fini di una più profonda conoscenza della natura umana, degli indecifrabili limiti, nel bene e nel male, dell’uomo e delle sue potenzialità, malefiche e benefiche.
Se, naturalmente, la Giornata è soprattutto un’occasione di meditazione sugli infiniti abissi del male, è importante che essa sia anche – come è – una sollecitazione a ricordare i non pochi casi di eroismo, altruismo e abnegazione registrati in quegli anni terribili, che, proprio in quanto fortemente minoritari nella dilagante crudeltà, viltà e indifferenza, contribuiscono a non fare perdere completamente la fiducia nel genere umano.
Esemplare, su questo piano, la straordinaria figura a cui è stata dedicata, a Napoli, nel sito vanvitelliano del Succorpo all’Annunziata, una toccante rappresentazione teatrale, dal titolo “Irena Sendler: la terza madre del ghetto di Varsavia” (ideazione, progettazione e cura di Roberto Giordano e Suzana Glavaš, col Patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli).
Irena – nata a Varsavia nel 1910, e ivi scomparsa nel 2008 – era un’infermiera cattolica che, sfidando gli ordini degli occupanti nazisti, continuò a dare protezione, cura e assistenza a migliaia di ebrei, riuscendo a salvarne moltissimi – almeno 2500 – dalla morte. Fu chiamata “la terza madre”, perché molti bambini ebrei di Varsavia, avendo perso la madre naturale (la “prima madre”), assassinata dagli aguzzini, furono da lei affidati, con falsi documenti con nomi cristiani, alle cure di donne polacche di buon cuore (“seconde madri”). La Sendler (“terza madre”) annotò i veri nomi dei bambini accanto a quelli falsi e seppellì gli elenchi dentro bottiglie e vasetti di marmellata sotto un albero del suo giardino, nella speranza di poter un giorno riconsegnare i bambini ai loro genitori.
Catturata e torturata dagli invasori, nell’ottobre del ’43, non parlò, non svelando i segreti della resistenza polacca, di cui pure era a conoscenza. Si salvò, pur restando menomata per tutta la vita a seguito delle feroci sevizie subite (le furono fratturate entrambe le gambe), e il suo eroismo ha avuto, dopo un periodo di silenzio, il giusto riconoscimento: nel 1965 lo Yad Vashem la ha eletta “Giusta tra le nazioni”, al suo nome sono state intitolate diverse scuole, in Polonia e in Germania, è stata pubblicamente elogiata, nel 2003, da papa Giovanni Paolo II, e nello stesso anno le è stata conferita la più alta decorazione civile della Polonia, l’Ordine dell’Aquila Bianca, oltre al Premio Jan Karski “Per il Coraggio e il Cuore”. Ma questi onori non hanno mai minimamente scalfito l’innata semplicità della persona, che ci ha lasciato parole come queste: “ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, e non un titolo di gloria”; “avrei potuto fare di più. Questo rimpianto non mi lascia mai”; oppure: “la cosa più importante, nella vita, è la bontà”. Frasi che, nel loro candore, ricordano quelle di un altro gigantesco ‘semplice’, Giorgio Perlasca, che commentò il suo eccezionale eroismo con questa disarmante considerazione: “voi cosa avreste fatto al mio posto?”.
Il console di Polonia ha elogiato la figura della Sendler, perché contribuisce a dare onore a una popolazione, come quella polacca, che non ha certo brillato, a quei tempi, per solidarietà verso le vittime. Così come un umile commerciante di Padova ha un po’ salvato l’onore degli italiani “brava gente”, è grazie a un’umile infermiera di Varsavia che possiamo guardare con maggiore rispetto al popolo polacco. Un motivo di più per ammirare la “terza madre”, e per essere grati a chi ci ha permesso di conoscere la sua luminosa storia.

Francesco Lucrezi, storico

(17 febbraio 2016)